venerdì 7 dicembre 2012

"Classica": i capolavori della letteratura, letti e commentati insieme a voi


di Faye



I grandi “Classici”: capolavori che conosciamo dai tempi della scuola,  o che  vediamo da sempre sugli scaffali della libreria di famiglia. Eppure, a meno di una passione e di un interesse personali, entrambe le situazioni possono non solo essere insufficienti a stimolare il desiderio della lettura, ma persino rivelarsi controproducenti.
Senza contare la mancanza di tempo che affligge un po’ tutti e l’incredibile proliferazione letteraria che ci circonda. Basta  entrare in una libreria per essere sommersi da titoli di ogni tipo, e capita frequentemente di soccombere alla tentazione di una letteratura di consumo, facile, veloce ed economica.
Tuttavia, a volte per un motivo banale, si prova il desiderio di approfondire o rispolverare la conoscenza di titoli famosi:  siamo incuriositi da una  nuova versione teatrale o cinematografica, dalla citazione da parte di un collega o all’interno di un articolo, o ci troviamo in imbarazzo di fronte alla domanda insidiosa dei nostri figli.
E la trama, rispolverata in fretta dalle pagine di internet, non ci regala la minima soddisfazione…
Nasce da qui l’idea di Pinkafé: la nostra proposta è quella di creare una sorta di biblioteca virtuale per la conoscenza di testi famosi, fornendo la possibilità di (ri)leggere alcune fra le pagine più belle della letteratura mondiale.
Non daremo solamente qualche notizia sugli autori o sull’opera che prenderemo in esame, né ci limiteremo ad un semplice riassunto della trama.
Quello che – con un po’ di ambizione e molto coraggio – ci proponiamo di fare, è leggere insieme a voi le pagine più universalmente note, e/o quelle a parer nostro più belle o significative,  avendo cura di creare elementi di raccordo per inserirle in un quadro completo e armonico dell’opera.
Non mancherà qualche breve commento, per sottolineare o spiegare punti di particolare interesse.
Dedichiamo questa rubrica a tutti coloro che amano la letteratura e desiderano ritrovare vecchi amici, e soprattutto a chi desidera conoscere più da vicino capolavori che non ha ancora avuto il tempo di leggere.

Buona lettura con Pinkafé


Il Progetto Classica  inizia con Grandi Speranze di Charles Dickens

Spot sull’Autore

Charles Dickens è un famoso scrittore inglese (1812-1870). Noto per i suoi racconti ricchi di humour (“Il circolo Pickwick”), ha ottenuto la fama universale soprattutto per i suoi  “romanzi sociali”. È il caso di David Copperfield, Oliver Twist, La piccola Dorrit, protagonisti indimenticabili che si muovono appunto sullo sfondo del disagio sociale, magistralmente delineato dalla penna dell’autore.

Le trasposizioni cinematografiche e teatrali dei suoi romanzi sono davvero moltissime.
Dal mese di dicembre, Grandi Speranze è riproposto sul grande schermo, per la regia di  Mike Newell e la sceneggiatura di David Nicholls. Nel cast di questo film applaudito al festival di Toronto, Helena Bonham Carter, Ralph Fiennes, Holliday Grainger.


Spot sull’Opera
Grandi speranze (Great Expectations) fu pubblicato a puntate tra il 1860 e il 1861, sul periodico settimanale All the Year Round, fondato dallo stesso Dickens. È considerato uno dei suoi romanzi brevi più intensi ed eleganti, nonché uno dei più popolari. È la storia dell’orfano Philip Pirrip  detto Pip e della sua vita, dall’infanzia all’età adulta, secondo lo schema del “romanzo di formazione” seguito in David Copperfield. La narrazione inizia la vigilia di Natale dell’anno 1812, quando Pip ha sette anni e termina nel 1840. La giovane e bellissima Estella è il personaggio femminile che si contrappone a Pip, ma è con la creazione di Miss Havisham, l’anziana e instabile madre adottiva di Estella, che Dickens ci regala  una protagonista di prima grandezza.

Grandi Speranze

Capitoli 1-7

"Il cognome di mio padre era Pirrip, e il mio nome di battesimo Philip, ma la mia lingua infantile non riuscì mai a ricavare dai due nomi nulla di più lungo o di più chiaro di Pip. Così presi a chiamarmi Pip, e Pip finii per essere chiamato da tutti."
Così il protagonista, voce narrante di tutta la storia, presente se stesso, nelle prime righe del romanzo.
È la vigilia di Natale e pur nella sobrietà della descrizione - un tratto tipico di Dickens, autore che riesce a dire moltissimo con poche parole o, al contrario, a nascondere profondi sottintesi in frasi eleganti e poetiche - è facile intendere la solitudine del piccolo orfano, che contempla le lapidi dei genitori e dei fratellini nel piccolo cimitero, in prossimità della palude.
È qui che si svolge l’incontro  cardine di tutta la storia: Pip è terrorizzato da “un uomo spaventoso, vestito di ruvido panno grigio, con un grosso cerchio di ferro alla gamba. Un uomo senza cappello, con le scarpe rotte e un vecchio straccio legato intorno alla testa. Rimasto a macerare nell'acqua, a soffocare nel fango, azzoppato da pietre, ferito da sassi, punto da ortiche, graffiato da rovi; un uomo zoppo e tremante, truce e torvo, che batteva i denti afferrandomi per il mento."
Spaventato dalle minacce dell’uomo,  Pip acconsente a portargli una lima e un po’ di cibo rubato dalla dispensa.
Trovare una lima è facile, perché Pip vive a casa di un fabbro, il buon Joseph (Joe) Gargery che ha sposato l’unica sorella superstite di Pip. Il problema è sottrarsi alla punizione della terribile Mrs. Gargery, una virago di vent’anni più grande che ha tirato su il fratellino “con le mani”, solleticando spesso le sue spalle (e quelle del timido marito) con un bastone. Pip riesce nell’impresa, ma il suo aiuto si rivela vano in quanto, proprio il giorno di Natale, l’evaso Abel Magwitch è riacciuffato dai soldati proprio alla presenza di Pip.
La vita tranquilla del bambino, che pure è stata sconvolta dall’esperienza nella palude (”Guardai le stelle e pensai come doveva essere atroce per un uomo, mentre sta morendo di freddo, alzare gli occhi al cielo e non trovare in tutta quella miriade scintillante né aiuto né pietà”) sta per cambiare bruscamente. Infatti, la ricchissima ed eccentrica Miss Havisham "dei quartieri alti" ha chiesto la compagnia di un bambino per “vederlo giocare”. È un’occasione che l’avida Mrs. Gargery non intende lasciarsi sfuggire.

Capitolo 8
Pip è condotto a “Casa Satis”,  “Casa Abbastanza”, una dimora “di vecchi mattoni, tetra, piena di sbarre di ferro da ogni parte. Alcune finestre erano state murate. Delle restanti, inferriate arrugginite sbarravano quelle più in basso, e anche il cortile sul davanti era sbarrato, sicché dovemmo aspettare, dopo il suono del campanello, che qualcuno venisse ad aprire.”
Pip ha un po’ di paura, ma sa che non può tirarsi indietro. Quello che ignora è che in questa casa incontrerà le donne che cambieranno la sua vita.
Ed ecco in che modo, attraverso gli occhi del giovane protagonista, Dickens ci presenta uno dei suoi personaggi più incredibili.
Miss Havisham è delineata con vocaboli e frasi che rendono nello stesso tempo l’idea del disfacimento e della morte (e quindi giustifcano il terrore del giovane Pip), e una struggente delicatezza, una malinconia che il bambino riesce a cogliere e, nonostante tutto, a comprendere. Perché anche lui ha subito l’ingiustizia e il suo piccolo cuore l’ha ingigantita. Splendido e attualissimo il monito di Dickens nei confronti dell’infanzia “violentata” da un’educazione troppo rigida.

“Tuttavia, visto che non potevo far altro che bussare, bussai, e dall'interno mi fu detto di entrare. Entrai, dunque, e mi ritrovai in una stanza discretamente spaziosa, ben illuminata da candele di cera. Non vi filtrava neanche il più lieve bagliore di luce esterna. Era uno spogliatoio, a giudicare dall'arredamento, anche se forme e usi di gran parte della mobilia mi erano a quel tempo sconosciuti. Su tutto, spiccava un tavolo coperto da un drappo, sormontato da uno specchio con la cornice dorata.  Così compresi che  si trattava della toletta di una signora e forse la riconobbi proprio perché vi era seduta una bella  signora. La più strana signora che io abbia mai visto o che possa mai vedere. Era seduta in una poltrona, col gomito appoggiato al tavolo e la testa posata sulla mano.
Era vestita di tessuti preziosi - satin, pizzo, seta - tutta in bianco.
Anche le scarpe erano bianche erano. Un lungo velo bianco le scendeva dai capelli, e vi erano fiori nuziali tra i capelli, ma i suoi capelli erano tutti bianchi. Gioielli scintillanti brillavano sul collo e sulle mani, e altri sul tavolo. Vestiti meno sfarzosi di quello che indossava erano sparpagliati per la stanza, e vi erano dei bauli riempiti a metà. Non aveva terminato di vestirsi, poiché aveva una scarpa sola - l'altra era sul tavolo, vicino alla mano - il velo non era sistemato a dovere, orologio e catena giacevano accanto allo specchio, ammucchiati in disordine insieme a un merletto da portare sul seno, al fazzoletto, ai guanti, a un libro di preghiere, a qualche fiore.
Tutto questo non lo vidi in quei primi istanti, anche se colsi più di quanto si possa supporre. Vidi comunque che tutto ciò che si offriva al mio sguardo e che sarebbe dovuto esser bianco, lo era stato in un tempo lontano ma aveva perduto la freschezza, divenendo opaco e giallo. Vidi che la sposa nell'abito nuziale era avvizzita come l'abito e come i fiori; di vivo le erano rimasti solo gli occhi infossati. Capii che quell'abito era stato fatto per la morbida figura di una donna
giovane e che il corpo su cui ora pendeva era ridotto a pelle e ossa. Una volta mi avevano portato alla Fiera a vedere una spettrale statua di cera, raffigurante non so che sconosciuto personaggio su un catafalco, vestito in abiti di gala. Un'altra volta mi avevano portato in una delle nostre vecchie chiese di palude a vedere uno scheletro coperto da brandelli di ricche vesti, disseppellito da una tomba sotto il pavimento. In quel momento, figura di cera e scheletro, sembravano avere  occhi scuri che mi guardavano. Avrei urlato, se avessi potuto. - Chi è?-  chiese la signora seduta al tavolo.
- Pip, signora.
- Pip?
- Il ragazzo di Pumblechook. Venuto... a giocare.
- Avvicinati, fatti guardare. Vieni qui.
Fu quando mi trovai in piedi davanti a lei, evitandone gli occhi, che osservai nei particolari gli oggetti intorno, e vidi che il suo orologio e quello appeso nella stanza erano fermi alle nove meno venti.
- Guardami - disse Miss Havisham. - Non ti fa paura una donna che non ha mai visto il sole da quando sei nato?
Mi spiace confessare che non ebbi affatto paura a dire l'enorme bugia espressa con un “No!”
- Sai cosa sto toccando? - chiese mettendosi tutt'e due le mani sul lato sinistro del petto.
- Sì, signora. (Mi fece pensare al giovane della palude.)
- Cosa?
- Il cuore.
- Spezzato!
Pronunciò la parola con sguardo ardente e forte enfasi, con un sorriso strano che conteneva una sorta di vanto. Per un po' tenne le mani sul cuore, poi lentamente le abbassò, come se fossero pesanti.
- Sono stanca. Voglio distrazioni, ho chiuso con uomini e donne. Gioca! 

Penso che anche il mio lettore più esigente dovrà riconoscere che a un povero ragazzo, in una situazione simile, non poteva chiedere nulla al mondo di più difficile da eseguire.
- Certe volte ho delle strane fantasie e adesso ho voglia di veder giocare qualcuno. Su! Su! – disse  agitando con impazienza le dita della mano destra. - Gioca, gioca, gioca!
Per un momento, pensando terrorizzato a  mia sorella, pensai disperato di scorrazzare per la stanza, imitando il calesse del signor Pumblechook. Ma non sentendomi all'altezza rinunciai, e rimasi a guardare Miss Havisham con un'aria che dovette sembrarle cocciuta, visto che dopo esserci guardati per un po' disse: - Sei un musone e un ostinato?
- No, signora; mi dispiace tanto per voi, mi dispiace proprio tanto di non riuscire a giocare. Lo farei se potessi, perché se non siete contenta di me, finirò nei pasticci con mia sorella; ma qui è tutto così nuovo, e così strano, e così bello... e malinconico... - mi fermai, per timore di dire troppo, o di aver già detto troppo, e ci guardammo di nuovo.
Prima di riprendere il discorso, distolse gli occhi da me e guardò il vestito che indossava,  la toletta, e infine la propria immagine nello specchio.
- Così nuovo per lui – sussurrò - e così vecchio per me; così strano per lui e così familiare per me; così malinconico per entrambi! - Chiama Estella.
Poiché continuava a guardarsi allo specchio, pensai che stesse parlando tra sé e non feci nulla.
- Chiama Estella - ripeté folgorandomi con lo sguardo. - Questo almeno lo puoi fare. Chiama Estella, dalla porta.
Trovarmi al buio, in una casa sconosciuta, in un corridoio carico di mistero, urlando Estella a una ragazza sprezzante che non si faceva né vedere né sentire, con la consapevolezza di prendermi una grave libertà, mi risultò penoso quasi quanto giocare a comando.
Alla fine rispose, e la sua luce avanzò nel corridoio buio come una stella.
Miss Havisham le fece cenno di avvicinarsi e prese un gioiello dal tavolo, provandone l'effetto sulla pelle chiara del seno, sui morbidi capelli scuri. - Un giorno sarà tuo, mia cara, e ne farai buon uso. Voglio vederti giocare a carte con questo ragazzo.
- Con questo ragazzo! Ma è un povero operaio!
Pensai di aver compreso la risposta di Miss Havisham, nonostante fosse inverosimile - E allora? Il cuore puoi spezzarglielo lo stesso.
- A cosa sai giocare, ragazzo? - mi chiese Estella col massimo disprezzo.
- Solo Rubamazzo, signorina.
- E tu rubaglielo! - disse Miss Havisham a Estella.

Così iniziammo a giocare.
Fu allora che cominciai a capire che nella stanza ogni cosa s'era fermata, come gli orologi, in un tempo lontano. Notai che Miss Havisham posava il gioiello esattamente nel punto in cui si trovava prima. Mentre Estella dava le carte, guardai di nuovo la toletta, e mi accorsi che la scarpa che vi poggiava, bianca un tempo e ormai ingiallita, non era mai stata indossata.
Guardai il piede senza scarpa e vidi che la calza di seta, bianca un tempo e ormai ingiallita, era tutta strappata. Senza questo fermarsi di ogni cosa, senza l'immobile quiete di tutti i pallidi oggetti in disuso, neanche l'abito da sposa  sul corpo cadente sarebbe sembrato tanto simile a una veste da morto, o il lungo velo ad un sudario. Mentre noi giocavamo a carte, se ne stava lì seduta come un cadavere, con le trine e le gale dell'abito nuziale che parevano di carta sporca. Allora non sapevo nulla dei corpi sepolti che quando vengono alla luce si riducono in polvere; ma in seguito, ho pensato spesso che lei aveva quell’aspetto, come se alla luce del giorno dovesse diventare polvere.
- Questo ragazzo chiama i fanti Jacks! -  disse Estella con disprezzo, prima che finissimo la partita. - Guarda che mani ruvide! E che stivali!
Prima d'allora non m'era mai venuto in mente di vergognarmi delle mie mani; ma iniziai a considerarle un'accoppiata davvero mediocre. Il suo disprezzo nei miei confronti era talmente forte, che divenne contagioso e mi disprezzai.
Vinse la partita e toccò a me dare le carte. Sbagliai, com'era naturale, sapendola in agguato per cogliermi in fallo; disse che ero stupido, un poveraccio.
- Tu di lei non dici niente -  disse Miss Havisham, osservandoci. - Lei ti offende, ma tu a lei non dici niente. Cosa pensi di lei?
- Non voglio dirlo, balbettai.
- Dimmelo in un orecchio - disse Miss Havisham piegandosi in avanti.
- Penso che sia molto superba - risposi in un sussurro.
- E poi?
- Che è molto graziosa.
- E poi?
- Che è molto offensiva. (Proprio allora mi stava fissando con uno sguardo
carico di repulsione.)
- E poi?
- Che vorrei andare a casa.
- E non vederla mai più, anche se è così graziosa?
- Non so se mi va di vederla ancora, ma adesso vorrei andare a casa.
- Fra poco ci vai - disse Miss Havisham ad alta voce. - Finisci la partita.
Se non fosse stato per quel suo primo strano sorriso, avrei quasi pensato che il viso di Miss Havisham non potesse sorridere. Aveva un'espressione fissa come tutte le cose intorno a lei, e sembrava che nulla potesse mutarla. Le si era afflosciato il busto, incurvandone la figura; le si era abbassata la voce, ridotta a un sussurro torpido e quieto; era come se in tutto, anima e corpo, dentro e fuori, si fosse accasciata sotto il peso di un colpo mortale.
Finii la partita con Estella, che vinse tutto. Gettò le carte sul tavolo dopo averle vinte, come se le disprezzasse per averle sottratte a me.
- Quando ti faccio tornare? - disse Miss Havisham. – Fammi  pensare.
Le stavo ricordando che era mercoledì, quando mi fermò con la stessa impazienza di prima, agitando le dita della mano destra.
- Basta, basta! Non ne so niente di giorni della settimana e non ne so niente di settimane dell'anno. Torna fra sei giorni. Hai capito?
- Sì, signora.
- Estella, accompagnalo giù. Dagli qualcosa da mangiare e lascia che si guardi un po' intorno intanto che mangia. Va', Pip.
Scesi seguendo la candela, come l'avevo seguita salendo, e lei la mise nel posto dove l'avevamo trovata. Prima che aprisse la porta laterale avevo istintivamente pensato che dovesse esser notte. Investito dalla luce del giorno, mi sentii disorientato e mi parve di esser rimasto in quella strana stanza al lume della candela per molte ore.
- Non muoverti di qui - disse Estella, e scomparve chiudendosi la porta alle spalle.
Ero solo in cortile e mi guardai le mani ruvide e le scarpe comuni. Il mio giudizio su quegli accessori non fu favorevole. Non mi avevano mai crucciato, ma lo fecero allora, come delle volgari appendici. Presi la decisione di chiedere a Joe perché mai mi avesse insegnato a chiamare Jacks quelle figure che si chiamavano fanti. Rimpiansi il fatto che non avesse avuto un'educazione più signorile, perché in quel caso l'avrei avuta anch'io.
Ricomparve portando pane, carne e un po' di birra. Poggiò il boccale in terra, sulle pietre del cortile, e mi allungò pane e carne senza guardarmi, trattandomi con arroganza, come se fossi un cane caduto in disgrazia. Ne fui così umiliato, ferito, avvilito, oltraggiato, adirato, dispiaciuto - non trovo la parola appropriata alla mia sofferenza - sa Dio quale fosse il suo nome - che gli occhi mi si riempirono di lacrime. In quell'attimo la ragazza, guardandomi, s'illuminò di gioia fugace per esserne stata la causa. Questo mi diede la forza di non piangere e di guardarla: allora, con una sdegnosa scrollata di capo - ma con la sensazione, mi parve, di esser stata troppo sicura di avermi ferito - se ne andò.
Ma quando si fu allontanata, mi guardai intorno cercando un posto dove nascondere la faccia, e mi rintanai dietro un cancello sul viottolo della birreria, poggiai la manica sul muro, la faccia sulla manica, e piansi. Mentre piangevo, prendevo a calci il muro e mi strappavo i capelli; era una reazione necessaria, tanta era l'amarezza che provavo, talmente acuta la mia pena senza nome.
I metodi educativi di mia sorella mi avevano reso sensibile. Nel piccolo mondo di un bambino, chiunque sia la persona che lo alleva, nulla viene percepito o sentito più acutamente dell'ingiustizia. Pure se l’ingiustizia di cui è fatto oggetto è piccola, anche il bimbo è piccolo, ed è piccolo il suo mondo; il suo cavallo a dondolo invece, in proporzione è grande quanto un cavallo da caccia irlandese. Sin dall’infanzia, avevo sostenuto dentro di me un costante conflitto con l'ingiustizia. Sin da quando avevo iniziato a parlare, avevo capito che mia sorella, con le sue imposizioni arbitrarie e violente, era ingiusta verso di me, e mi ero andato sempre più convincendo che l'allevarmi con le sue mani, non le dava il diritto di allevarmi con le sue botte. Era una certezza che avevo nutrito attraverso punizioni, castighi, digiuni, veglie e altro; probabilmente la mia timidezza e vulnerabilità erano dovute alla solitudine e all’abbandono.
Mi liberai per il momento della mia sensibilità ferita, ficcandola a calci dentro il muro della birreria, e strappandomela a forza dai capelli; poi mi spianai il viso passandoci sopra la manica, e uscii da dietro il cancello. Il pane e la carne erano discreti, la birra scaldava piacevolmente, e presto ritrovai l'umore giusto per guardarmi intorno."

Nel prossimo articolo, i capitoli successivi di "Grandi Speranze"

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